Meglio allenarsi in compagnia che da soli
Secondo numerose ricerche scientifiche, l’esercizio fisico provoca il rilascio nel cervello di antidolorifici naturali. Detto questo, l’antropologa Emma Chen della Oxford University ha dimostrato nel 2010 che la soglia del dolore dei membri di una squadra di canottaggio era più alta dopo gli allenamenti di gruppo rispetto a quelli in solitaria. Questo perché c’è un maggior rilascio delle endorfine naturali che agiscono come una sorta di antidolorifico che alleggerisce la fatica. La ricerca suggerisce inoltre che, se le persone si allenano con gli amici, è meno probabile che abbandonino l’attività fisica.
Vietato circuitare
STRATAGEMMI PER RENDERE PIÙ VERSATILE UN CIRCUITO DA ESEGUIRE IN PALESTRA
Vietato “circuitare”. Non cercate questa parola sul dizionario, è puro frutto della mia perversa fantasia, ma credo renda l'idea. Attenzione: il divieto a “circuitare” non è certo legato a pericoli fisici o metabolici per chi li esegue. Anzi, ho sempre sostenuto e continuo a ribadire che gli allenamenti a circuito siano la forma di allenamento più divertente, efficace, motivante e versatile che esiste. Purtroppo basta immaginare una palestra, in particolare una sala pesi/attrezzi un lunedì sera, e vedere cosa succederebbe se ci si presentasse con una scheda a circuito. L’utente verrebbe prima guardato male per poi correre il rischio di fare scoppiare una rissa in quanto, per eseguire il suo caro circuito, dovrebbe occupare quasi contemporaneamente più attrezzi. Questo è logisticamente ingestibile e porterebbe quasi certamente alla reale impossibilità di realizzare quel tipo di allenamento. Ci sono stratagemmi che possono servire per rendere più versatile un circuito da eseguire in sala pesi (anche se non sempre sono applicabili). Fra questi ricordo:
• Posizionare la macchine cardio vicino alla zona macchine/pesi in modo che camminando , pedalando o altro, sia visibile la sala e individuare preventivamente la disponibilità dell'attrezzo che si desidera fare dopo il cardio.
• Nella costruzione del circuito, non indicare in modo specifico gli esercizi che lo compongono ma più genericamente il gruppo muscolare, questo fa in modo che l'allievo possa selezionare autonomamente un esercizio disponibile.
• Cercare di consigliare di non usare macchine ma esercizi da eseguire a corpo libero o con pesi liberi.
Quanto detto può funzionare in palestre con sale “medio – piccole” dove, infatti, di frequente le macchine cardio sono posizionate in ambienti separati o comunque distanti dagli attrezzi; analogamente non è detto che ci siano nella sala spazi adeguati per fermarsi a fare gli esercizi (anche a corpo libero) presenti nel circuito. Occorre evidenziare come nell'evoluzione degli anni i “circuit training” si siano sempre più spostati all’interno delle sale corsi, con allenamenti di functional training che nella maggioranza delle loro applicazioni sono effettuati con delle formule a circuito. Preso atto di queste difficoltà è logico che nella maggioranza dei centri la famosa scritta “vietato circuitare” magari non appare ma il divieto è sottinteso e sottolineato nel momento stesso in cui si cerca di metterlo in atto. A questo punto, onde evitare lo scontro fisico, si possono cercare delle soluzioni dove si ottiene comunque un valido stimolo metabolico senza dovere però ricorrere alla forma ortodossa del circuito.
Una prima proposta (scheda A/B/C) prevede che gli esercizi vengano svolti in Super Set: si unisce quindi a ogni serie un esercizio per gli addominali (per le donne potrebbe essere per i glutei) e il recupero è sempre medio breve. Da notare che l’indicazione generica di “addominali” consente di rimediare semplicemente mettendosi a terra di fianco all’attrezzo ed eseguire un classico Crunch. Come ripetizione viene indicata una forbice (esempio 8/12) che indica le ripetizioni massime e minime: quindi, se con il carico scelto si superano agilmente il numero massimo previsto occorre aumentare il carico, se durante l’esecuzione delle 3/4 serie il numero di ripetizioni scende al di sotto del minimo previsto occorre invece alleggerire il carico. Durante i super set non sono mai occupate due macchine contemporaneamente. Anche in questo caso (se si ha a che fare con atleti esperti), anziché indicare il nome esatto dell'esercizio (esempio, panca orizzontale), si potrebbe genericamente indicare il gruppo muscolare (pettorali).
Nelle schede D/E/F si propone invece un classico allenamento con l’esercizio base eseguito con forbice di reps da 15 a 10 facendo recuperi brevi (1 minuto), logico quindi che si vada rapidamente a esaurirsi visto che le serie da eseguire sono 10 sarà inevitabile calare il peso. A seguire, c'è un esercizio “metabolico” che può essere il tabata sullo squat oppure il calare le ripetizioni a tempo di rec crescente e peso fisso (in pratica si punta a 12 reps, pausa 10 sec, si passa a 9 reps, recupero 15 sec, si passa a 6 reps, pausa 20 sec, si passa a 3 reps); a questo punto pausa da 1/1,15 e si ripete per 3 volte. In tutte e 3 le schede si conclude con un Tabata proposto sugli addominali, l'esercizio proposto è il classico sit-up con tutte le accortezze del caso come velocità di esecuzione non troppo elevata, ginocchia ben piegate, non arrivare mai a toccare la panca con la schiena. Alla fine, se tempo ed energie lo prevedono, si inseriscono 6/8 ripetute di cardio hi-lo. Questo potrebbe essere sul tappeto alternando camminata e corsa oppure mettendo il tappeto in camminata veloce e a ogni minuto alternare pianura e massima pendenza. Utilizzabile anche bike o ellittica semplicemente variando il freno. Le proposte possono essere tantissime e vi assicuro tutte divertenti ed efficaci e ben applicabili senza intasare troppo la palestra. Proposte metabolico/dimagranti che ben si sposano con questa stagione dell'anno; fra l'altro tutte che non richiedono più di 45/60 minuti di tempo, l'ideale per l'utente medio. Va poi da sé che ogni istruttore avrà modo di personalizzare e adattare queste proposte in base all’utente e al tipo di attrezzatura di cui dispone.
Che “la resistenza” sia con voi!
I fantastici 4 del pilates funzionale
QUATTRO ESERCIZI A CONFRONTO, DUE TECNICHE DI ESECUZIONE, UN UNICO OBIETTIVO.
Non gli unici, ma sicuramente i più immediati e riconoscibili. Così ho definito “I fantastici 4”, cioè i quattro esercizi portanti sia del programma Pilates che del functional training. Le due tecniche si differenziano in alcune essenzialità di esecuzione, dal timing di lavoro, dal numero di ripetizioni, dall’inserimento nella ruotine, dal tipo di allenamento impostato, ma unico rimane l'obiettivo, cioè lo stimolo neuromuscolare insito nella natura stessa dell’esercizio: l’attivazione della catena agonista, accompagnata sinergicamente dall’azione di stabilizzazione eccentrica dell’antagonista, laddove la forza del core riveste sempre il ruolo di ‘leader’ in ogni momento del workout, in entrambe le tecniche. Considerando i principi fondamentali che sempre devono essere tenuti presenti quando si esegue una routine Pilates, e cioè la concentrazione, il controllo, la respirazione, la centralizzazione, la precisione, la fluidità, l'economia del movimento, confrontandoli con le caratteristiche sulle quali si basa l’allenamento funzionale e cioè la mobilità articolare, la flessibilità muscolare, la coordinazione motoria, l'alta sinergia muscolare, la multi-planarietà dei movimenti, la ricerca dell'instabilità per il potenziamento del core, è possibile osservare come le peculiarità di ciascuna delle due tecniche interagiscano e si sovrappongano tanto da convergere verso un unico e solo obiettivo: il focus dell’allenamento, ossia la finalità che mi porta a utilizzare quell’esercizio specifico in quella determinata routine, utilizzando una modalità o l'altra.
Ecco gli esercizi nella loro esecuzione specifica. Dopo averli confrontati, offrirò una valutazione del comune obiettivo, il “focus”.
1. PUSH UP
• PILATES: partendo dalla standing position, eseguire un roll down fino a terra, compiere tre passi in avanti appoggiandosi sulle mani fino a raggiungere la plank position, tenendo le gambe completamente estese e stabilizzando il tronco per tenere le curve fisiologiche dell’intero rachide. Inspirare e contemporaneamente piegare le braccia cercando di avere i gomiti vicini al busto, avvicinando il petto al pavimento senza ‘spezzare’ la linea del core. Espirare estendendo le braccia, eseguendo un press up. Dopo aver ripetuto tre volte, dalla plank position compiere tre passi camminando verso i piedi e spingendo il bacino verso l’alto, mantenendo estese le gambe. Espirando risalire alla standing position eseguendo un roll up.
• FUNCTIONAL: partenza dalla plank position in appoggio sulle mani e sugli avampiedi, con il corpo proteso in allineamento neutro della colonna vertebrale, mediante una forte attivazione degli obliqui e del trasverso che creano una co-contrazione dei muscoli antero-posteriori della cintura addominale. Eseguire un piegamento sulle braccia inspirando in fase eccentrica, stendere poi le braccia espirando in fase concentrica attivando una spinta delle mani in extrarotazione per potenziare l’azione dorsale (come se volessi ‘avvitare’ le mani nel pavimento!). Il push up come esercizio basilare dell’allenamento funzionale prevede molteplici variazioni (monopodalico, spider push up, side to side push up, one arm push up, etc.) e un’alta dose di ripetizioni, ovviamente sempre in rapporto al tipo di workout impostato.
• OBIETTIVO: allenare e rinforzare sia la catena anteriore che quella posteriore, stimolando sinergicamente le muscolature di entrambe e coinvolgendole in ugual percentuale. È sicuramente un potente lavoro di stabilizzazione del cingolo scapolo-omerale e del bacino attraverso un richiamo isometrico di tutta la muscolatura del core.
2. ROLL UP - SIT UP
• PILATES ROLL UP: dalla posizione supina, sollevare le braccia verso l’alto perpendicolari al corpo mentre si inspira, mantenere stabilizzate scapole. Espirando iniziare la flessione del busto, cercando il contatto a terra della zona lombare e il distacco lento e controllato delle vertebre una dopo l’altra, le braccia saranno in posizione parallela al pavimento, raggiungendo così la posizione seduta. Da qui inspirare allungando l’intero rachide verso l’ alto e iniziare espirando la fase di ridiscesa al pavimento “Roll down”, necessariamente verrà attivata una forte contrazione del pavimento pelvico e del trasverso, portando quindi il tronco in “C curve”, spingendo le anche in avanti, sganciando le vertebre lentamente e portandole una dopo l’altra di nuovo in appoggio al pavimento, ritrovando la posizione supina di partenza. I livelli di esecuzione e difficoltà varieranno a seconda della posizione tenuta dagli arti inferiori: con le gambe piegate, oppure una gamba tesa e una piegata, oppure tutte due tese. Consigliato ripetere 5/6 volte.
• FUNCTIONAL SIT UP: la differenza principale con la precedente versione sta nella dinamica di esecuzione sicuramente più veloce e nella tecnica respiratoria più breve: si espira nella fase concentrica di salita e si inspira in quella eccentrica di discesa. Partenza sempre dal decubito supino, gambe piegate con i talloni saldamente fissati al pavimento, salire in posizione seduta, braccia in naturale accompagnamento al movimento normalmente 90° rispetto al busto. Medio-alto il numero di ripetizioni, variabile sempre in funzione del workout.
OBIETTIVO: miglioramento della forza della cintura addominale, della mobilità del rachide vertebrale e della flessibilità della muscolatura del dorso. Importante il ruolo dei flessori dell'anca che lavorano concentricamente nella fase di salita ed eccentricamente nella fase di discesa, mentre contemporaneamente gli estensori dell’anca agiscono concentricamente.
3. ROLLING LIKE A BALL - ROCK UP
• PILATES ROLLING LIKE A BALL: partenza da seduti in equilibrio controllato sugli ischi, con le gambe flesse raccolte al petto e mani in presa alle gambe, sotto alle ginocchia o abbracciandole saldamente da sopra. Inspirando rotolare sulla schiena fermandosi non più in alto delle scapole, cercando di mantenere le spalle abbassate e una uguale distanza tra petto e cosce, collo in allungamento e allineato alla “C curve” del rachide. Espirando rotolare in avanti fermandosi in equilibrio controllato seduti sugli ischi, cercando di ritrovare e mantenere la posizione iniziale.
• FUNCTIONAL ROCK UP: si parte dalla standing position, scendendo in massima accosciata fino a percepire l’appoggio dei glutei al pavimento per iniziare a rullare sulla colonna vertebrale, fermandosi all’area scapolare (mai quella cervicale!). Le braccia seguono il movimento fermandosi verso l’alto o proseguendo in overhead. Iniziare la risalita rotolando sulla schiena per ritornare in massima accosciata ed estendere poi gli arti inferiori con grande azione di forza ed equilibrio, riconquistando la standing position iniziale. L’allenamento funzionale prevede anche la variante sia in discesa che in risalita con una gamba tesa e una piegata (propedeutica allo Squat pistol).
• OBIETTIVO: è un esercizio dinamico con passaggio di posizione (da seduta a sdraiata a seduta, o da standing a sdraiata a standing) che richiede notevoli doti di stabilità e di equilibrio, nonché una cospicua dose di concentrazione durante l’esecuzione. Permette di operare un grande lavoro di contrazione dei fasci addominali e un contrapposto allungamento dei fasci dorsali, sia in fase di roll che in fase di risalita, ed è fondamentale l’azione di stabilizzazione attraverso le muscolature più profonde in ogni istante di esecuzione del movimento.
4. SIDE BEND - SIDE PLANK
• PILATES SIDE BEND: definito anche “Advanced Mermaid” in quanto la ‘sirenetta’ prepara la corretta esecuzione di questo esercizio che richiede un forte intervento di sostegno a carico di un solo degli arti superiori e un grandioso allungamento ad arco dell’emicorpo opposto, unito a un’eccezionale azione di tono e rinforzo delle catene muscolari laterali. Partenza dalla posizione laterale distesa con appoggio su gomito e avambraccio nella fase più ‘facile’, in appoggio sulla mano col braccio teso nella fase ‘intermedia e avanzata’, bacino in seduta laterale su un’anca con le gambe piegate in posizione a triangolo. Espirando, attivare la contrazione della muscolatura del core sollevando il bacino verso l’alto, contemporaneamente estendere entrambe le gambe e spingere il braccio opposto a quello di appoggio sopra la testa, formando un arco con tutto il corpo. Inspirare e ritornare alla posizione di partenza.
• FUNCTIONAL SIDE PLANK: partendo dalla posizione di Plank, o con appoggio sui gomiti o con le braccia tese, ruotare l’intero corpo lateralmente in appoggio unilaterale – sull’avambraccio o sulla mano a seconda della base di partenza – sostenendo fortemente l’intero peso corporeo. L’appoggio degli arti inferiori è bi podalico, articolandosi sull’interno di un piede e sull’esterno dell’altro e attivando le muscolature abduttrici e adduttrici di gambe e cosce, nonché i fasci di tutto il core, che agiscono sinergicamente per mantenere il bacino in allineamento al corpo intero. Dal side plank o cosiddetta “T position”, ritorno alla centralità del Plank per passare al lato opposto. Va considerato che, nell’ambito della tecnica funzionale, la modalità di partenza in appoggio su gomiti/avambracci o sulle mani/braccia tese non viene intesa come livello di difficoltà, ma come variazione di intervento sulle muscolature che devono sostenere la fase di contrazione isometrica per un determinato tempo. Infatti, più il corpo è vicino a terra (plank/side plank sui gomiti), più la forza di attrazione gravitazionale agisce stimolando intensamente la catena muscolare vicina al suolo. Contemporaneamente l'appoggio distribuito sull'avambraccio costituisce una base più ampia e stabile, capace di alleggerire il carico sulla spalla. Viceversa l’appoggio sulla mano a braccio teso risulta più instabile e quindi sicuramente più intenso e impegnativo per tutto il cingolo scapolo-omerale, mentre tronco e arti inferiori subiranno una minore incidenza gravitazionale rimanendo più distanti da terra. I tempi di esecuzione e il numero delle ripetizioni variano sempre in relazione al tipo di workout.
• OBIETTIVO: stimolare potentemente le catene muscolari laterali, migliorando la forza e la stabilità, partendo dal cingolo scapolo-omerale per arrivare agli arti inferiori passando attraverso dorsali (soprattutto muscolo dentato) e core (particolarmente gli obliqui). È un esercizio di grandiosa sinergia muscolare.
Come evidenziato nell’introduzione, questi non sono gli unici esercizi che la tecnica Pilates e il functional training hanno in comune. È anzi auspicabile un maggiore utilizzo e interazione degli stessi, in modo da attivare tutti i nove schemi motori umani fondamentali cioè sollevare, spingere, tirare, ruotare, lanciare, deambulare/correre/saltare, trasportare/trascinare, rotolare, squat/accosciata, e utilizzandoli anche come elementi di transizione tra un decubito e l’altro, tra una posizione “standing” e una “sitting”. Ottimizzando così le routine, favoriremo lo scambio tra le due tecniche, rendendo il Pilates sempre più funzionale.
Clicca qui per vedere l'articolo completo con le immagini di ogni singolo esercizio consigliato.
Il functional training per le donne
L’EVOLUZIONE DEL MOVIMENTO AL FEMMINILE.
Rispetto all’allenamento tradizionale, il functional training si occupa del corpo nel suo insieme e dona naturalezza.
La donna sin dalla lontana era paleolitica ha assunto un ruolo fondamentale nella gestione della famiglia. Non soltanto in virtù del suo dedicarsi alle attività domestiche per le consuete mansioni di madre e moglie, ma anche e soprattutto come procacciatrice, alla stessa stregua dell’uomo, di cibo e altri beni necessari per il sostentamento metabolico dei familiari e dell’intero gruppo di nomadi a cui apparteneva. Più in dettaglio, se l’uomo ricopriva il ruolo di “cacciatore” la donna rivestiva infatti quello di “raccoglitrice”. La sopravvivenza della comunità era assicurata dalla raccolta di erbe, tuberi e frutti, nonché dalla caccia di piccoli roditori, una funzione per l’appunto assolta dalle donne del gruppo. Nel corso delle loro “battute” curavano le piante commestibili, sarchiando, eliminando le erbacce e talora concimando il suolo. Molto tempo è passato da allora, ma tuttora le donne continuano a fare lavori quotidiani simili, dal fare la spesa, allo svolgere le faccende di casa, dal gestire una maternità, pre e post parto alla cura di un animale domestico. E ieri come oggi, le funzioni organiche e metaboliche legate alla biomeccanica di questi gesti necessari allo svolgimento di tali mansioni ‘al femminile’, non possono non riportarci alle differenti scelte tecniche che caratterizzano in generale l’allenamento funzionale. Ossia, più nello specifico, un appropriato allenamento con schemi che riconducono le donne a svolgere quei movimenti presenti nella loro memoria motoria, seppur in un era dove la civilizzazione ne ha modificato le gesta. Il functional training rappresenta infatti la disciplina che – per eccellenza – riattiva la gestualità globale, la sua specifica tridimensionalità, la sua multiplanarità stimolando e talvolta ricostruendo una armonia del movimento e rinforzando le diverse capacità motorie, quali la mobilità, l’equilibrio e la forza da cui ne consegue il significato vero del termine funzionale: atto a donare uno perfetto stato di “wellness” tipico degli organismi sani.
Il nuovo programma di functional training rivolto alle donne, con le sue specifiche caratteristiche – che verrà proposto dalla FIF Academy nel prossimo autunno – si prefigge come obiettivi principali il continuo controllo della postura stimolando il ripristino della consapevolezza del corpo attraverso schemi motori fisiologici eseguiti per catene muscolari, nonché il miglioramento della componente cardio-respiratoria-circolatoria. Il programma del functional training per le donne prevede lo sviluppo delle seguenti componenti:
• la mobilità globale e la propriocettività di tutte le articolazioni
• la stabilità statica e dinamica
• la coordinazione
• la reattività
• l’adattamento a esercizi asimmetrici e l’utilizzo del piano trasversale, entrambi più utilizzati nella vita quotidiana
• l’utilizzo di sovraccarichi esterni e carichi interni progressivi attraverso un lavoro misto di resistenza aerobico e anaerobico.
Generali e specifici saranno i vantaggi di un programma funzionale così articolato:
• miglioramento della liposintesi e un conseguente miglioramento dell’umore per ridotta produzione di cortisolo
• influenza positiva sugli estrogeni responsabili dell’insorgenza della cellulite
• abbassamento del rischio di infortuni
• riduzione dell’insorgenza di patologie osteoarticolari
• maggiori effetti curativi su cervicalgie, lombalgie, osteocondrosi e primi stadi di possibili scoliosi.
Il functional training per le donne permette tra l’altro, di esaltare ancor di più le loro peculiarità caratteriali che sono alla base della loro spiccata leadership, con la possibilità di riuscire a ottenere grandi risultati in breve tempo.
Uno studio condotto dall’azienda Caliper, una società di consulenza accreditata che ha analizzato a fondo lo stile di 59 donne leader, ha riscontrato infatti che le donne:
• sono più persuasive degli uomini. Le donne cercano di far cambiare prospettiva e far sposare il proprio punto di vista all’interlocutore più spesso degli uomini che tendono a convincere con la forza delle proprie posizioni. Ne consegue una ottimizzazione dei tempi di cui si dispone
• hanno maggior necessità di fare, sono quindi più pragmatiche
• hanno maggiori capacità interpersonali (flessibilità, empatia, socialità)
• ascoltano di più e meglio degli uomini, perché utilizzano di più quello che hanno ascoltato
• sono generalmente più inclusive e, in particolare, presentano un modo di decidere e risolvere i problemi che coinvolge maggiormente gli altri membri del team. Tengono moltissimo ad arrivare alla miglior decisione possibile più che a difendere il loro punto di vista iniziale.
Tutte prerogative che rendono la donna l’allieva o l’atleta che ogni Functional Trainer vorrebbe allenare nel percorso della sua carriera: tenace, caparbia, determinata, pronta al cambiamento e predisposta alle sfide pur di raggiungere il traguardo stabilito. Per un corpo “naturalmente” più sano che doni una qualità di vita “davvero” più alta, la volontà di mettersi in gioco, di sperimentare e sentire i segnali del proprio corpo, permettendo di riscoprire il proprio potenziale e l’essere determinate e costanti nella pratica, sono dunque i requisiti fondamentali per un allenamento funzionale “al femminile” decisamente vincente!
Gli stabilizzatori della spalla
ESERCIZI MIRATI PER RINFORZARLI E RIDURRE L’INCIDENZA DI INFIAMMAZIONI E INFORTUNI.
La spalla, una delle articolazioni più complesse, viene messa costantemente sotto carico sia negli esercizi di spinta (come i piegamenti a terra o la panca piana/inclinata, le croci, le spinte con manubri, kettlebell, bilancieri, etc.), sia negli esercizi di trazione (come i pull up, il rematore o le tirate al mento), che provocano costantemente uno stress articolare.
Oltre a questi movimenti che sono sì dinamici ma in cui si ha un maggior controllo, se si aggiungono esercizi come lo snatch, da eseguire con il kettlebell o con il bilanciere, l’OHS (Over Head Squat), il MU (Muscle Up) o le trazioni con kipping, il rischio di infortuni alla spalla aumenta sostanzialmente per due motivi: prima di tutto, per l’instabilità stessa della spalla, poi per l’esecuzione tecnica sbagliata. Prima di spiegare come poter evitare o almeno abbassare il rischio di infortuni alla spalla, bisogna capire come essa è costituita.
La spalla, è formata da un complesso di cinque articolazioni, tutte indispensabili per la sua fisiologica meccanica. Esse sono:
• Gleno – omerale: tra omero e scapola
• Acromion – claveare: tra scapola e clavicola
• Sterno – claveare: tra sterno e clavicola
• Scapolo – toracica: falsa articolazione data dallo scivolamento tra scapola e le coste della gabbia toracica
• Sottodeltoidea: falsa articolazione data dallo scorrimento dei foglietti della Borsa sottodeltoidea.
Tra queste, le articolazioni Gleno-omerale, Scapolo-toracica e Acromion-claveare, sono quelle maggiormente coinvolte in processi traumatici e cronici. Gli stabilizzatori (muscoli) della spalla che formano la cuffia dei rotatori sono:
• Sovraspinato: con la sua azione, abduce e ruota all’esterno (extraruota) il braccio, in sinergia con l’azione del deltoide
• Sottospinato o infraspinato: con la sua azione, ruota esternamente il braccio e rinforza la capsula dell’articolazione scapolo omerale, stabilizzandola.
• Sottoscapolare: con la sua azione, adduce e ruota verso l’interno il braccio (intrarotatore)
• Piccolo rotondo: con la sua azione, sinergica nei confronti dell’infraspinato, ruota debolmente verso l’esterno il braccio.
Quello che bisogna fare dunque, è rinforzare i muscoli stabilizzatori della spalla – troppo spesso sottovalutati – affinché si riduca l’incidenza di infiammazioni e di infortuni alla spalla stessa.
Analizziamo insieme gli esercizi da fare:
1. INTRA/EXTRA ROTAZIONE OMERO DALLA STAZIONE ERETTA
Il primo semplice esercizio da fare prevede l’utilizzo di due kettlebell con un peso relativamente leggero (8/12 kg). Dalla stazione eretta, con le braccia lungo i fianchi e i due kettlebell tenuti in mano, si extraruotano le braccia fino al massimo range articolare, e poi si intraruotano mantenendo sempre il massimo del rom. Durante l’esecuzione tecnica le braccia devono sempre rimanere lungo i fianchi e molto vicino al corpo.
Eseguite 3 serie da 12/15 ripetizioni per lato.
2. HALO
Si esegue sempre con un kettlebell relativamente leggero, anche se si potrà azzardare un carico leggermente più alto (12/16 kg). Dalla stazione eretta, si afferra il kettlebell in “bottom up” (con la “palla” rivolta verso l’alto) e si eseguono delle circonduzioni intorno alla testa, con l’attrezzo che resta sempre molto vicino al capo. I gomiti devono restare sempre vicini tra loro e mai allontanarsi. L’addome e i glutei devo sempre essere attivati per tutta la durata del movimento rispettando le curve fisiologiche del rachide.
Eseguite 3 serie da 10/12 ripetizioni.
3. SHRUG SHOULDER IN LOCK OUT CON KETTLEBELL
Dalla stazione eretta, con il kettlebell in lock out (incastro sopra la testa), si eseguono delle piccole spinte elevando e abbassando la scapola. Anche qui vanno rispettate le naturali curve fisiologiche della colonna, mantenendo l’addome e i glutei attivi.
Eseguite 3 serie da 8/10 ripetizioni per lato.
4. SHRUG DALLA POSIZIONE DI BODY ROW
Dalla posizione di body row (trazioni orizzontali con le ginocchia flesse a 90 gradi e le piante dei piedi ben salde a terra), si afferra la sbarra con le mani in pronazione alla larghezza delle spalle e – rimanendo sempre con le braccia tese – si portano le scapole in retrazione e poi in protrazione. I glutei restano contratti per tutta la durata del movimento.
3 set da 10 ripetizioni.
L’esercizio più avanzato potrà esser fatto alla sbarra con le braccia tese in alto. Questa volta le spalle non si “avvicinano e allontanano” ma dovranno scivolare prima verso il basso e poi verso l’alto (l’idea è quella di eseguire la parte iniziale della trazione ma senza flettere i gomiti). Attivate l’addome spingendo leggermente le vostre gambe in avanti mantenendole unite e tese.
3 set da 10 ripetizioni.
5. SHRUG INVERSO ALLA PARALLELE
L’esecuzione tecnica di questo esercizio è simile al precedente (shrug avanzato) ma questa volta cambia la posizione delle braccia. Mentre prima erano in sospensione verso l’alto, in questo esercizio si troveranno lungo i fianchi in appoggio sulle parallele. Mantenendo glutei e addome contratto, si dovrà anche qui fare una “scrollata” di spalle affinché le scapole possano prima scivolare in basso e poi in alto.
Eseguite 3 set da 10/12 ripetizioni.
Raccomandazioni
Gli esercizio sopra elencati, che aiutano a migliorare e a rinforzare la stabilità della spalla, non dovranno essere eseguiti tutti nella stessa sessione di allenamento. Un consiglio pratico è di allenarvi in base al vostro obiettivo. Per i lavori a terra, sono molto utili gli esercizi 1, 2 e 5. Per i lavori alla sbarra, con kettlebell o bilancieri, sono consigliati maggiormente gli esercizi 3 e 4 (sia nella forma semplice che in quella avanzata).
Buon allenamento a tutti!
Il recupero è parte integrante dell'allenamento
SPESSO SI TENDE A RISPETTARE IL RECUPERO TRA LE RIPETIZIONI DI UN ESERCIZIO, MA NON QUELLO A MEDIO-LUNGO TERMINE TRA UN'ALLENAMENTO E L’ALTRO.
LA FATICA È LA DIMINUZIONE, SIA PERCEPITA SIA OGGETTIVAMENTE MISURATA, DELLA CAPACITÀ FISIOLOGICA (NERVOSA E MECCANICA) DI ESEGUIRE UN LAVORO SENZA IL RECUPERO, INTESO COME PARTE INTEGRANTE DELL’ALLENAMENTO, LA PRESTAZIONE ATLETICA NON PUÒ PROGREDIRE NEL MIGLIORE DEI MODI.
Quando si parla di recupero, i più fanatici dell’allenamento tendono a snobbare questo argomento, continuando ad allenarsi, ignorando i campanelli di allarme che il proprio organismo invia. Anche io, ero uno di quelli che pensava solo ad allenarsi, portando al limite del possibile ogni singolo allenamento 6 giorni su 7. Più spingevo sull’acceleratore e più la mia prestazione invece di migliorare, si stabilizzava o addirittura regrediva. Se vi chiedessi ora quali sono le variabili più importanti per il raggiungimento della massima performance, probabilmente rispondereste l’allenamento e l’alimentazione. Ma se vi chiedessi qual è la variabile che limita i vostri progressi, la risposta che vi darei io sarebbe: molto probabilmente, il recupero.
Prima di porvi un’altra domanda, ci tengo a precisare quanto segue: esistono diversi tipi di recupero, sicuramente i primi due li applicherete in modo meticoloso: il recupero immediato che avviene tra le ripetizioni di un esercizio; il recupero a breve tempo tra le serie di un esercizio. Il nostro organismo (sia le strutture periferiche e sia il SNC) infatti deve necessariamente recuperare nell’immediato e nel breve tempo per portare a termine le ultime ripetizioni e fronteggiare l’esercizio o la serie successiva. Vedremo più avanti cosa accade e cosa viene ripristinato nel breve periodo.
Fatta questa premessa, eccovi ora l’altro quesito: non credete, quindi, che sia importante recuperare tra una sessione di allenamento e l’altra? La risposta la troviamo nel terzo tipo di recupero: il recupero a medio-lungo termine che avviene tra una sessione di allenamento e l’altra. Tornando alla domanda precedente, per comprendere bene il motivo del recupero a medio-lungo tempo, bisogna capire cos’è la fatica! Essa può essere avvicinata a quella sgradevole sensazione di stanchezza fisica e mentale.
Dopo una seduta di allenamento (stress fisico) più o meno intensa, la prestazione atletica subisce un calo, ed essa richiede un periodo di tempo variabile affinché possa essere ripetuta. La riduzione della performance prende dunque il nome di fatica. L’allenamento (o stimolo) provoca uno stress sia periferico (fibre muscolari, struttura tendineo-articolari etc.) che centrale (SNC). Se lo stimolo risulta essere allenante e se passa un “adeguato” periodo di riposo, allora la prestazione atletica dovrebbe migliorare; viceversa se lo stimolo risulta essere poco allenante, o se addirittura il volume di allenamento risulta essere eccessivo e il recupero troppo breve o nel caso contrario troppo lungo, la prestazione potrebbe subire un decremento. La fatica quindi può essere definita come la “diminuzione sia percepita, sia oggettivamente misurata, della capacità fisiologica (nervosa e meccanica) di eseguire un lavoro”.
Ecco dunque che il recupero risulta essere fondamentale per poter “azzerare” la fatica e “cancellare” i danni causati dall’allenamento. Possiamo definire il recupero come “un processo integrante dell’allenamento senza il quale la prestazione atletica non può progredire nel migliore dei modi”.
Due tipi di fatica:
LA FATICA PERIFERICA
L’allenamento, come visto in precedenza, provoca un danno. In questo caso la fatica periferica è data da un danno metabolico o tessutale che rende il muscolo incapace di rispondere meccanicamente o biochimicamente in modo ottimale agli stimoli. I fattori che determinano la fatica periferica sono:
1. esaurimento delle scorte energetiche (glicogeno muscolare, CP, ATP);
2. microlesioni muscolari;
3. accumulo dei prodotti del metabolismo (lattato, ammoniaca, radicali liberi, H+);
4. riduzione dell’eccitabilità muscolare;
5. alterazione dell’equilibrio ionico;
6. alterazioni ormonali;
Osservando questi fattori, possiamo riassumere che:
1. Le scorte energiche, quali la creatinfosfato (CP), vengono ripristinate entro i 2 minuti per l’80 per cento circa, entro i 4 minuti per il 90 per cento ed entro gli 8 minuti per il 100 per cento. Le scorte di glicogeno, a seconda dell’attività svolta e del tipo di alimentazione che viene seguita (una % maggiore glucidica favorisce il recupero del glicogeno), vengono ripristinate entro le 24/36 ore.
2. Il recupero totale da microlesioni muscolari (DOMS - Delayed Onset Muscle Soreness) avviene dai 2 ai 5 giorni (dipende dal grado di allenamento e dal carico di allenamento)
3. la quantità di lattato nel sangue torna a valori normali tra i 45 e 90 minuti circa (a seconda del grado di allenamento del soggetto e di quanto lattato verrà prodotto).
4. Il riequilibrio ormonale e della creatinfosfochinasi (CPK) entro le 60 ore.
LA FATICA CENTRALE
La fatica centrale si traduce in una diminuzione delle scariche elettriche da parte del sistema nervoso centrale (SNC) per produrre la massima forza. Per poter recuperare a pieno dai lavori di forza pura, il nostro SNC ha bisogno di recuperare per circa 70 ore. Oltre a questo, il SNC si “stanca” anche quando vengono introdotte nuove abilità tecniche o schemi motori, ed è richiesto un lasso di tempo affinché essi vengano poi “metabolizzati”. Non solo la struttura periferica ha bisogno di recuperare, ma anche il nostro SNC ha bisogno di recuperare dai lavori di forza massima o sub massimale e di “riprogrammarsi” quando vengono introdotti nuovi schemi o abilità motorie (neuroplasticità). Conoscendo ora la fisiologia e la biochimica, basterebbe alternare i lavori metabolici quali aerobici e lattacidi, ai lavori di forza (neuronali) per poter recuperare nel migliore dei modi. Basterebbe quindi variare volume, intensità, esercizi o distretti muscolari ed il gioco è fatto. Questo risulta essere vero fino ad un certo punto, in quanto non esistono allenamenti puri. Ogni allenamento, metabolico o neuronale, stressa con percentuali diverse, i due sistemi. Infine, non bisogna sottovalutare altri elementi che influenzano il recupero e che vengono classificati come intrinseci ed estrinseci.
• Fattori intrinseci (immodificabili): sesso, età, peculiarità individuali.
• Fattori estrinseci (modificabili): quantità e qualità del sonno, nutrizione, stress allenante, stile di vita e strategie per poter meglio recuperare.
Strategie per un recupero più veloce:
1. Alimentazione sana e bilanciata sia tra i macronutrienti (carboidrati, grassi e proteine) sia tra i micronutrienti (vitamine, minerali e oligoelementi).
2. Idratazione ottimale.
3. Stile di vita sano e regolare
4. Altre strategie che potrebbero accelerare il recupero anche se non ci sono reali evidenze scientifiche sono:
a) recupero attivo a bassa intensità post allenamento. Questa strategia aiuta a smaltire più rapidamente il lattato, ma non ci sono evidenze scientifiche che nel medio lungo termine possa accelerare il recupero.
b) Massaggi, foam roller: sembra che applicati post allenamento aiutino a recuperare dai DOMS e dalla fatica periferica.
c) Immersioni in acqua fredda: questa tecnica sembra che possa ritardare e ridurre le infiammazioni, i DOMS e la fatica percepita.
d) Stretching: esso risulta veramente importante per altri fattori, ma nel caso del recupero non sembra ci sia una reale evidenza scientifica, ne tanto meno per prevenire l’insorgenza dei DOMS.
Preso in considerazione quanto detto, è chiaro che ogni programma di allenamento dovrà essere cucito addosso variando i volumi di allenamento, l’intensità, i sistemi energetici e metabolici, e tenendo conto di tutte le caratteristiche individuali.
Un consiglio che posso dare sul recupero per soggetti poco allenati è di non superare i tre giorni a settimana. Chi invece è allenato e ha molta esperienza, può provare la strada del 2/1, ossia alternare due giorni di allenamento con un giorno di riposo. Ciò significa riuscire ad allenarsi 5 giorni su 7 senza sovraccaricare in modo eccessivo l’organismo. Date però ascolto sempre al vostro organismo, che resta sicuramente il miglior consigliere per i vostri allenamenti!
Allenamento con i pesi: si o no?
LE LINEE GUIDA DI NSCA E AAP INDICANO COSA FARE E COSA INVECE EVITARE. SI TRATTA DI UNA GRANDE POTENZIALITÀ PER GETTARE LE BASI DI FUTURI ATLETI MENO SOGGETTI A TRAUMI, PIÙ PROPORZIONATI E CERTAMENTE PIÙ SANI E PRESTANTI. STA AI TECNICI SFRUTTARE E PROPORRE ADEGUATAMENTE TALI OPPORTUNITÀ.
Quella dell’allenamento con i carichi sugli adolescenti è una questione annosa che da sempre trova pareri discordanti. Il dato di fatto è che, in molti casi, chi è contrario si affida più a luoghi comuni che non a certezze derivanti da ricerche scientifiche. Come sempre l'invito è di fare una scorribanda su PubMed per verificare cosa c'è. Digitando le parole “Resistance Training Young”, oppure “Resistance Exercise and Youth” o “Strenght Training Children and Adolescents”, ecco comparire una ricchissima bibliografia dove personalmente non sono riuscito a trovare studi che evidenzino malformazioni e problematiche derivate da questo tipo di allenamento. Anzi, praticamente tutta la bibliografia ne esalta il potenziale. Anche partendo ‘solo’ dagli anni Ottanta, uno studio di Merch su gemelli monozigoti di undici anni – di cui uno dei due eseguiva resistance training 2/3 volte a settimana e l’altro giochi di squadra – non evidenziava nessuna problematica scheletrica o diversità di altezza, ma grandi differenze sullo sviluppo muscolare e sulla prestazione. Ne è seguita una marea di studi, fra cui due importantissime linee guida da parte della NSCA (National Strenght Counceil Association) e della AAP (American Academy of Pediatrics) che, anche come categoria, si espongono in modo chiaro e incontrovertibile a favore dell'allenamento con i pesi. Sembrerebbe che l'età adatta sia quella indicata come Turgor Secundus, cioè intorno agli 8/9 anni, anche se a quell'età – così come anche in quelle a seguire – l'allenamento a circuito, ma con esercizi che comprendano l’uso dei carichi, pare essere una delle forme più adatte e divertenti. Questo fino al cosiddetto Turgur Terzius (13/15 anni) dove la maturazione ormonale e la maggiore precisione degli schemi motori determina una verticale crescita delle potenzialità legate all'allenamento con i sovraccarichi. È proprio in questa età che c'è la grande differenziazione fra maschi e femmine poiché queste ultime, pur continuando a “reggere” molto bene carichi in volume, ‘soffre’ invece un po’ in quelli ad intensità. Comunque, anche nelle età più giovani si notano interessanti aumenti di forza (circa 20/25 per cento in 8 settimane), questo a conferma che l'adattamento è soprattutto nervoso e non influenzato dall'intervento ormonale.
Tutti gli studi, ma soprattutto le linee guida delle organizzazioni insistono sul punto base: la sorveglianza competente e attenta da parte di un tecnico, la necessità di fare apprendere tecniche perfette e con la giusta progressione pedagogica.
Assurda e purtroppo ancora frequente la tendenza a fare incrementare l'intensità (il carico) su posture sbagliate e tecniche inesatte; questo è l'unico vero rischio, rischio che è comunque presente anche negli adulti dove, troppo spesso, facendo svolgere esercizi con i carichi in gruppo, si porta il soggetto a instaurare un regime di competizione che inevitabilmente punta in modo esclusivo alla prestazione cadendo spesso in grossolani errori di esecuzione e conseguenti alte possibilità di infortunio e traumi.
Una volta evidenziato questo punto chiave della sorveglianza e della tecnica, le linee guida della NSCA sono – in forma riassuntiva – le seguenti:
✔ Iniziare ciascuna sessione di allenamento con 5-10 minuti di riscaldamento dinamico
✔ Iniziare con carichi relativamente leggeri (non portati a esaurimento) e focalizzarsi sempre sulla tecnica corretta di esecuzione degli esercizi
✔ Eseguire 1-3 serie di 8-15 ripetizioni di vari esercizi per la parte superiore e inferiore del corpo
✔ Includere esercizi specifici che rafforzino il Core
✔ Focalizzarsi sullo sviluppo muscolare simmetrico e sull’equilibrio muscolare appropriato a livello delle articolazioni
✔ Aumentare la resistenza gradualmente (5-10%) di pari passo con il miglioramento della forza
✔ Eseguire il defaticamento con esercizi calistenici meno intensi e con lo stretching statico
✔ Iniziare l’allenamento contro resistenza 2-3 volte a settimana, a giorni alterni.
Riguardo alla progressione dei carichi, secondo le linee guida, è bene partire con 12, per poi passare con lo stesso carico a 14 e poi a 16. Quando si è in grado di fare l'obiettivo di ripetizioni preposte, tornare a 12 e aumentare (anche di poco, tipo 1 kg) e riprendere la progressione. Sui soggetti più grandini si può anche provare dalle 15 a scendere a 6, aumentando il carico e poi cercando di migliorare le ripetizioni. Fino ai 14 anni, i recuperi vanno bene anche di solo 1 minuto (per questo funzionano bene anche i circuiti); crescendo vanno aumentati. Da notare come l'uso dei carichi non influisca negativamente su flessibilità ed elasticità muscolare, se si ha la semplice accortezza di continuare ad allenarla e di non concentrarsi solo sul potenziamento (ma questa raccomandazione è valida anche sugli adulti). La scelta degli esercizi sarà, dove possibile, principalmente con movimenti multi articolari e preferibilmente con carichi liberi, evitando al massimo le macchine (anche se per i dorsali un lat machine è il benvenuto). Si può tranquillamente insegnare anche gesti potenti come le girate, tralasciando la ricerca del carico e perfezionando gesto e coordinazione.
La AAP conferma le linee guida sopra esposte, aggiungendo alcune raccomandazioni come:
✔ Gli adolescenti e preadolescenti devono evitare il power lifting e il body building e i sollevamenti con carichi massimali fino al raggiungimento della maturità scheletrica;
✔ Nei programmi finalizzati alla prevenzione e alla salute generale è bene integrare l'allenamento della forza con il lavoro aerobico
✔ Usare l’intera escursione articolare per ogni articolazione impegnata;
✔ Privilegiare i pesi liberi, sia perché le macchine sono tarate su misure adulte, sia per il maggior controllo dell’equilibrio che impongono questi attrezzi
✔ Importante ascoltare sempre ciò che l'adolescente comunica e creare un ambiente empatico fra trainer, genitori, compagni.
Da segnalare come gli insegnanti debbano primariamente personalizzare il lavoro. Infatti nelle fasce di età interessate a queste considerazioni è facile vedere, a parità di età, strutture fisiche con sviluppi completamente diversi che richiedono quindi non schemi precostituiti ma appositamente confezionati in base alla maturità muscolare e coordinativa del soggetto. Analogamente il trainer deve ben conoscere il carico settimanale complessivo di lavoro che l’adolescente svolge. Non è infatti anomalo trovare un adolescente che, oltre a 2/3 sedute di potenziamento, svolge anche allenamenti per giochi di squadra e altre attività tipo nuoto o giochi personali svolti con amici. Nonostante in queste fasce di età i recuperi siano ai massimi livelli, è sempre bene avere un quadro degli impegni e del tipo di vita che il giovane allievo svolge.
I benefici dell’allenamento con i carichi sui giovani è ben evidenziato dalla Tabella 1 tratta da “Pediatric Resistance Training: Benefit, Concerns and program design Consideration”, Faigenbaum e Myer ACSM 2010.
TABELLA 1
• Aumenta la forza muscolare
• aumenta la potenza muscolare
• aumenta la resistenza muscolare locale
• migliora le prestazioni delle abilità motorie
• aumenta la densità minerale ossea
• migliora la composizione del corpo
• migliora la sensibilità all'insulina
• migliora il profilo lipidico nel sangue
• riduce il rischio di lesioni legate allo sport
• migliora le prestazioni sportive
• stimola un atteggiamento maggiormente positivo verso l'attività fisica durante la vita
Da notare come si parli di miglioramenti della body composition. Infatti gli allenamenti con carichi, sia da soli che eseguiti a circuito, hanno dato grandi risultati anche nei ragazzi in sovrappeso nel migliorare il metabolismo (tra i punti c'è anche la sensibilità insulinica) e nel favorire la perdita di massa grassa e aumentare la massa magra. Certamente l'allenamento con i carichi è una grande potenzialità che permette di creare le basi per futuri atleti meno soggetti a traumi, più proporzionati e certamente più sani e prestanti. Sta ai tecnici sfruttare e proporre adeguatamente tali opportunità.
Il cammino e la corsa - Come allenare la deambulazione
NEI GESTI DELL’ATLETICA LEGGERA, SI TROVANO QUASI TUTTE LE ABILITÀ DI BASE NECESSARIE A QUALSIASI DISCIPLINA SPORTIVA.
L’universo metodologico e didattico della moderna preparazione atletica o allenamento funzionale, come personalmente preferisco chiamarla, è quanto mai ricco. Va però detto che tutto ciò che riguarda l’allenamento, gli stimoli allenanti e le metodologie per conseguire il miglioramento della performance, nasce dalla ricerca nell’ambito dell’atletica leggera, vera e propria regina degli sport e fucina storica per lo studio nella scienza dell’allenamento. Fucina cha ha il suo tempio nella palestra per antonomasia, il campo di atletica leggera: un “ovale” di 400 metri per più corsie, con annessi luoghi per l’esecuzione di salti e lanci. In questa palestra a cielo aperto nascono tutti gli elementi tradizionali che poi ritroviamo nelle cosiddette palestre indoor e che diventano mezzi di allenamento nella preparazione fisica. Questo perché, nei gesti dell’atletica leggera, si trova la maggior parte delle abilità di base necessarie a qualunque disciplina sportiva; anche gli stimoli allenanti più complessi, sia in ordine qualitativo (coordinazione) che quantitativo (organico/metabolico). Mi concentrerò ora, in termini concreti ed operativi, sulla qualità base del movimento umano: la deambulazione. Spostarsi attraverso la deambulazione è una qualità primordiale dell’essere umano. Nel mondo sportivo, il sapersi muovere e spostarsi attraverso l’utilizzo dei propri arti inferiori, è fondamento prioritario nella maggior parte delle discipline sportive e rientra, a pieno titolo, nelle esercitazioni di sviluppo delle qualità funzionali dell’atleta. È quindi stimolo allenante per eccellenza che deve essere presente in ogni bagaglio di competenze del buon preparatore atletico. La deambulazione si estrinseca in tutta una serie di diverse andature che – per comodità – è possibile suddividere in due grandi categorie: il cammino e la corsa.
Per definizione, il camminare è una successione di passi dove esiste sempre un contatto (seppur minimo, come nella marcia agonistica) col terreno. La corsa invece è definita come una successione di balzi, dove, anche se per un tempo seppur minimo (nei balzi a doppio impulso, per esempio), esiste un completo abbandono della superficie terrestre. Educare a un movimento corretto di deambulazione non è solo sinonimo di abilità atletica, ma anche di capacità di sfruttare al massimo le qualità biomeccaniche messeci a disposizione da Madre Natura/Genetica. Il sapersi spostare correttamente, di passo o di corsa, il posizionare correttamente gli arti inferiori e gli appoggi, sono tutte cose utili a ogni disciplina sportiva e requisito fondamentale per ogni gesto motorio di successo.
Per passare alla pratica, in un campo di atletica, si prende una distanza di circa 15/20 metri per iniziare a eseguire degli esercizi di passo atti al miglioramento della qualità degli appoggi e sensibilizzazione dei piedi. Si inizia con l’appoggio sulla punta del piedi da eseguire di passo con entrambi gli arti. Si continua con l’appoggio sul tallone, e sulla parte centrale del piede cosi come con la successione di appoggi laterali in pronazione (interno) e supinazione (esterno). Anche gli esercizi su tallone, punta, etc. si possono eseguire in pronazione e supinazione, come da esempio qui sotto. Si passa poi alla serie di appoggi in rullata, sia in andature avanti che dietro. Una volta eseguiti in forma bilaterale, si può associare un elemento coordinativo di differenziazione del movimento in cui un arto si muove in appoggio “normale” mentre l’altro nella forma richiesta, e per complicare le cose può essere richiesta una deambulazione di passo con un piede in appoggio differenziato rispetto all’altro. Le stesse sequenze devono poi essere ripetute in andatura di corsa dove la velocità degli appoggi cambia e ne aumenta la difficoltà coordinativa. Oltre a utilizzare il senso di marcia abituale (in avanti) si utilizza il senso al contrario (all’indietro) e gli spostamenti laterali. A tutto ciò, è possibile collegare movimenti degli arti superiori e il superamento di ostacoli o l’obbligo di passaggio (utilizzo della scaletta o Speed-Ladder).
Dopo aver “sensibilizzato” la pianta del piede e l’articolazione tibio-tarsica, si passa agli esercizi che interessano l’articolazione del ginocchio e del coxo-femorale: due esempi classici, sono l’andatura a ginocchia alte, che si trasforma in skip e l’andatura calciata. Questi due esercizi sono elementi validi come didattica alla corsa ma interessano, proprio per la dinamica e biomeccanica intrinseca, tutti gli altri elementi estrinseci propri delle varie tipologie tecniche di “posizionamento” degli arti inferiori delle discipline sportive. Da queste tipologie di esercizi, condotti sia in passo che di corsa, si passa a una ulteriore evoluzione: le andature balzate che, nella loro principale proiezione verso l’alto, trovano le massime espressioni di impulso ed esplosività. Skip corto, medio e lungo, doppio impulso, corsa balzata e balzi corti, medi e lunghi sono solo alcuni dei nomi di esercitazioni basate sulla rapidità d’appoggio ed esecuzione coordinata.
Riassumendo, sul campo di atletica possiamo iniziare a “lavorare” con gli esercizi di deambulazione di base, partendo dall’appoggio del piede, per passare alle articolazioni superiori. Le direzioni sono avanti, dietro e laterali con o senza associazione di movimenti degli arti inferiori e in forma differenziata negli appoggi. Si passa poi all’esecuzione degli stessi esercizi in andatura di corsa a varie velocità e ampiezza di appoggi, con o senza ostacoli. Infine si passa alla corsa con propulsione e spinta verso l’alto, nota con corse balzate.
Nel prossimo articolo continueremo a parlare di andature e di rapidità sul campo, utilizzando un semplice strumento didattico che è la Speed-Ladder, dopodiché passeremo alla velocità, all’allenamento della resistenza e ai metabolismi di resistenza anaerobica, attraverso sollecitazioni “atletiche” ma utili e indispensabile alla gran parte degli sport, individuali, tecnici, di prestazione e giochi sportivi. Seguiteci!
© Performance Magazine - Settembre 2017
Forte come una roccia - Flessibile come un giunco
COME E PERCHÉ AUMENTARE LA MOBILITÀ ARTICOLARE E L'ELASTICITÀ A LIVELLO MUSCOLARE.
Le tipologie di stretching più adatte per migliorare la flessibilità negli atleti.
Tra tutte le capacità condizionali che un atleta deve sviluppare, quella sicuramente più trascurata o alla quale si dedica normalmente un tempo minore rispetto alla “fase” prestazionale, è sicuramente la flessibilità intesa come mobilità a livello articolare ed elasticità a livello muscolare. Non si tiene, dunque, abbastanza conto del fatto che la flessibilità è una componente essenziale nella corretta esecuzione dei movimenti perché alla base di tutti gli schemi motori corporei. La flessibilità risulta condizionata dalla personale ampiezza di esecuzione di un movimento sui diversi piani di lavoro (ROM), valutabile su base articolare in rapporto alla lunghezza dei legamenti, alle capsule fibrose e all'estensibilità della catena cinetica coinvolta in quel movimento, quindi nella capacità elastica di ogni singolo muscolo e relativo tessuto connettivo. Gummerson definisce la flessibilità come “la gamma assoluta del movimento di un articolazione o serie di articolazioni, ottenibile in uno sforzo momentaneo con l'aiuto di un partner o di un attrezzo”. Questa definizione ci porta a riflettere sul fatto che la flessibilità non è qualcosa di assoluto nell'individuo, ma qualcosa di assolutamente settoriale e “dedicato”. Vale a dire, essere flessibili nei distretti inferiori non significa necessariamente esserlo anche sui distretti superiori; inoltre, si può non avere una buona mobilità globale a livello articolare su tutti i piani di movimento: quindi, per esempio, chi riesce a fare la “spaccata” frontale non necessariamente riesce in quella di apertura laterale, malgrado si tratti della stessa articolazione coxofemorale! Sempre secondo Gummerson, la flessibilità può essere condizionata sia da fattori endogeni (interni) che da fattori esogeni (esterni).
Rientrano tra i fattori endogeni:
• Tipologia di articolazione intesa come sua specifica funzionalità
• Lunghezza genetica di tendini e legamenti e loro relativa elasticità
• Strutture ossee a limitazione del movimento
• Elasticità della muscolatura specifica legata alla catena preposta al movimento
• Capacità di rilassare e detensionare la muscolatura antagonista
• Eventuali lesioni o traumi che possono condizionare negativamente sia il fattore mobilità che elasticità
Fanno parte, invece, dei fattori esogeni:
• Temperatura ambientale. Le alte temperature favoriscono una maggiore flessibilità
• Età del soggetto. C'è una maggiore flessibilità in età preadolescenziale
• Sesso del soggetto. Le femmine generalmente più flessibili dei maschi
• Conformazione fisica, presenza di massa muscolare molto sviluppata e di massa adiposa eccedente. Da intendere come limitazione ai movimenti
• L'allenamento specifico alla flessibilità, cioè il tempo dedicato al miglioramento/mantenimento di questa qualità e la tecnica utilizzata per raggiungere questo tipo di obiettivo.
Entrando più nello specifico, è possibile distinguere tra 3 diverse tipologie di flessibilità:
1. FLESSIBILITÀ DINAMICA: agisce sulla capacità di svolgere movimenti dinamici fino al massimo limite dell'articolazione, attraverso l'azione delle muscolature coinvolte nel movimento stesso.
2. FLESSIBILITÀ STATICA ATTIVA: agisce sulla capacità di raggiungere e mantenere posizioni allungate, usando solamente la tensione dei muscoli agonisti o antagonisti e sinergici, a seconda del movimento da compiere.
3. FLESSIBILITÀ STATICA PASSIVA: agisce sulla capacità di assumere e tenere posizioni allungate usando il proprio peso corporeo, l'aiuto di un partner o attrezzi specifici.
A questo punto, è importante chiedersi quale tipologia di stretching (dall’Inglese to strech = “allungare”, “stirare”) praticare, considerando i numerosi effetti benefici provati o probabili che tale pratica apporta all’organismo: maggiore mobilità nei movimenti, preparazione delle strutture muscolari alla contrazione, diminuzione della sensazione di fatica, stimolazione della lubrificazione articolare, miglioramento della respirazione e della circolazione, effetti rilassanti e calmanti.
Di fatto, da un punto di vista neurofisiologico, è molto importante percepire in tempo reale lo “stato” del proprio corpo, a livello di tensione e di rilassamento. Ed è bene farlo, tenendo conto che i muscoli possiedono una grande capacità di allungamento, stimata fino a un 20-50 per cento della propria lunghezza a riposo, e che sono sollecitati i cosiddetti propriocettori, vere e proprie sentinelle poste lungo le fibre muscolari e tendinee in grado di inviare “messaggi” al SNC (sistema nervoso centrale). Stiamo parlando dei fusi neuromuscolari e dell’organo tendineo del golgi (O.T.G). I fusi neuromuscolari sono piccoli propriocettori di forma fusale posti in parallelo lungo le fibre muscolari, in grado di rilevare sia il grado di allungamento del muscolo che la velocità alla quale avviene questo allungamento. Quando il muscolo viene allungato eccessivamente, i fusi “sentinella” inviano un messaggio all'SNC, il quale in risposta porta il muscolo a contrarsi (riflesso miotatico fasico o riflesso da stiramento) per evitare un ulteriore allungamento. Contemporaneamente avremo anche il fenomeno della inibizione reciproca, cioè il rilassamento completo del muscolo antagonista. Da tenere in alta considerazione il fattore velocità, in quanto il riflesso miotatico fasico non si manifesta se il muscolo viene allungato molto lentamente e con gradualità.
Gli organi tendinei del golgi sono piccoli recettori dello stiramento collocati nella giunzione tra un muscolo e il suo tendine. Essi sono costituiti da piccoli fasci di fibre tendinee racchiuse in una capsula a strati e sono attivati da una contrazione muscolare che porta il tendine in stiramento. Questo stiramento provoca l'inibizione dei motoneuroni alfa (cellule nervose che trasmettono impulsi al SNC) che a loro volta causano il rilassamento muscolare, proteggendo il muscolo e il tessuto connettivo da eccessive sollecitazioni. Gli OTG sono quindi preposti a rilevare il livello di tensione su porzioni muscolari localizzate e la forza muscolare estrinsecata, mandando il segnale “sentinella” al SNC: si ottiene quindi il rilassamento completo del muscolo come conseguenza di una contrazione prolungata (riflesso inverso da stiramento o innervazione reciproca). Da notare che la loro risposta non è immediata ma avviene dopo 5-6 secondi dall'inizio dello stiramento. Nelle tecniche di allungamento dinamico vengono stimolati i fusi neuromuscolari e viene quindi attivata una risposta contrattile della muscolatura nella fase di ricerca del massimo ROM del movimento, risposta non produttiva per il miglioramento della flessibilità ricercata ma sicuramente “protettiva” a livello fisiologico e organico; con le tecniche di allungamento passivo, il lento e graduale stiramento, non viene attivata la risposta dei fusi, mentre gli OTG inviano segnali di rilassamento.
Ecco le metodiche di stretching più utilizzate:
• Stretching BALISTICO: basato su brevi e veloci contrazioni del muscolo agonista, provocando brevi e veloci allungamenti del muscolo antagonista; attualmente quasi del tutto abbandonato dai tecnici per le diverse controindicazioni riscontrate
• Stretching DINAMICO: relativo alla esecuzione di movimenti dinamici tramite muscolature che muovono un segmento corporeo nel completo ROM dell’articolazione
• Stretching STATICO PASSIVO: l'abilità di assumere e mantenere una posizione di allungamento usando solamente il peso del corpo, di un segmento corporeo o un attrezzo
• Stretching STATICO ATTIVO: l'abilità di assumente e mantenere una posizione di allungamento tramite la contrazione di muscoli agonisti e sinergici (allungando gli antagonisti)
• Stretching PNF (PROPRIOCEPTIVE NEUROMUSCOLAR FACILITATION): metodologia in grado di accelerare il meccanismo neuromuscolare che facilita l'allungamento, mediante la stimolazione programmata dei propriocettori muscolari; consiste in una serie di contrazioni isometriche, concentriche ed eccentriche, da soli o in coppia, spesso usato per la riabilitazione o per finalità atletiche.
Le metodologie di ricerca della flessibilità in modo dinamico hanno efficacia di tipo funzionale in quanto tutte le attività quotidiane e gli sport stessi sono “dinamici”.
E, allora, buona flessibilità a tutti!
© Performance Magazine - Settembre 2017
Muscoli carenti? L'importanza degli esercizi di attivazione
SERVONO PER ALLENARE L’EQUILIBRIO E LA COORDINAZIONE, MA ANCHE PER RIDURRE L’INCIDENZA DEGLI INFORTUNI. ESEMPI SPECIFICI PER I MUSCOLI DEL DISTRETTO SUPERIORE E INFERIORE.
Molti schemi motori del corpo umano, pur costituendo le fondamenta dello sviluppo filogenetico, spesso presentano già dalla pubertà dei deficit motori causati da una debolezza e una inadeguata trofia di alcuni gruppi muscolari coinvolti nel movimento. Diverse possono essere le cause:
• caratteristiche genetiche individuali o fattori strutturali sfavorevoli
• caratteristiche biomeccaniche, come ad esempio la scarsa mobilità articolare
• caratteristiche fisiologiche, quali lo scarso numero di fibre e tipo di fibre.
Tuttavia, tra le principali motivazioni, la più diffusa è quasi sempre una mancanza di propriocezione che va negativamente a influenzare la tecnica di esecuzione degli esercizi. Una valida strategia che si presta a migliorare la propriocezione e l’attivazione di un gruppo muscolare consiste nell’eseguire un esercizio di pre-attivazione prima di passare all’allenamento dello schema motorio o esercizio specifico.
Gli esercizi di pre-attivazione rispondono principalmente a due obiettivi funzionali:
1 allenano l’equilibrio e la coordinazione
2 riducono l’incidenza degli infortuni
Per il raggiungimento di tali obiettivi, pertanto, l’esercizio di pre-attivazione muscolare deve rispondere alle seguenti caratteristiche:
• il suo raggio di movimento deve essere molto ampio per garantire il completo, o quasi, allungamento e accorciamento
• la sua azione deve generare un picco di contrazione contro resistenza
• deve essere scelto tra gli esercizi di isolamento (mono-articolari), o comunque deve limitare il lavoro dei muscoli sinergici per pre-attivare in modo specifico il muscolo target
• il ritmo di esecuzione deve essere controllato con un breve momento di stasi in fase di massimo accorciamento (picco di contrazione)
• il numero di ripetizioni deve essere alto (15/20 ripetizioni)
• il numero di serie consigliato deve essere compreso tra due e tre
• non deve mai raggiungere la soglia dell’esaurimento muscolare
• affinché la sua funzione sia di attivatore, deve precedere l’esercizio o lo schema motorio di riferimento, e quest’ultimo a seguire deve essere svolto in ogni sua ripetizione con una concentrazione specifica sulla contrazione del muscolo target.
Tra le strategie che maggiormente rispondono alle capacità neuronali della pre-attivazione si può scegliere fra:
• le contrazioni eccentriche. Queste infatti:
- Pre-attivano il muscolo, permettendogli di iniziare la fase di accorciamento con il massimo della tensione (“pre-tensione”).
- Stimolano il riflesso miotatico, attivando uno stiramento delle componenti elastiche in serie (SEC) del muscolo, accumulando conseguentemente energia elastica. Nella fase di accorciamento, queste componenti si accorciano più velocemente dei sarcomeri, restituendo l’energia immagazzinata. Ciò permette ai sarcomeri di accorciarsi meno e più lentamente, sviluppando maggiore tensione (“muscle potentiation”)
• tecniche di pre-stancaggio o pre-esaurimento muscolare
• tecniche di esercizi diversi, carichi diversi o mix & match che rispondono al principio della multilateralità dello stimolo allenante, con la possibilità di alternare il numero di ripetizioni (lunghe, medie e corte) in modo che si possano stimolare tutti i tipi di fibre
• l’elettrostimolazione applicata all’esercizio specifico in modo da aumentare il coinvolgimento percentuale del muscolo debole
• l’allenamento di richiamo nei casi più specifici legati all’ipertrofia. Quest’ultimo può essere di diverso tipo:
- Richiamo ravvicinato quando il problema della mancata crescita è legato a una difficoltà di recupero. In tal caso si suggerisce di applicare tecniche a bassissima intensità il giorno seguente l’allenamento principale per favorire la rimozione di metaboliti e tossine e favorire il recupero.
- Richiamo distanziato quando invece il problema è dovuto alla poca intensità dell’allenamento sul muscolo. Si suggerisce quindi di applicare un allenamento supplementare, ad alta intensità e basso volume, il più lontano possibile dall’allenamento precedente e da quello successivo.
- Allenamento specifico attraverso la programmazione di allenamenti mirati per il gruppo muscolare carente, a scapito della frequenza allenante degli altri.
Clicca qui per vedere l'articolo completo con le immagini di ogni singolo esercizio consigliato.
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